2022 – BLU – Visionarea art space – Roma

BLU
Gianluca Marziani

La natura di alcuni artisti privilegia le variazioni minime su una scala semantica circoscritta. E’ un approccio dal metodo minuzioso che protegge la creazione dai “rumori” esogeni, chiudendo lo sguardo nella grammatica del proprio perimetro, senza perdita del focus sintattico, senza distrazioni tematiche che contaminerebbero l’essenza senziente dell’idea. Per questi artisti la tela si trasforma in una blindatura fortificata, un iperoggetto gravitazionale che comprime il carico energetico in forma quantistica, similmente a un campo di antimateria che esercita pressione sulla massa concentrata, al punto da moltiplicare l’energia dentro la singola tela, come se ogni atto cromatico fosse un nocciolo cosmico dotato di un codice sorgente non fungibile.

Danilo Bucchi è l’artista che più mi stimola riflessioni sul destino metafisico della pittura, sul concetto di attualità e persistenza dell’immagine dipinta, su come il quadro possa integrarsi ai nuovi profili digitali senza disperdere il suo patrimonio iconografico, la sua natura metodica e artigianale, il suo
spazio di privilegio in un mercato dalle trasformazioni endogene.

Esiste un capitalismo digitale che sta decentrando i sistemi di potere e creando piattaforme sovrapposte, fatte di arcipelaghi senza verticalismi, di processi finanziari per nuove generazioni di fruitori e acquirenti. Questo mondo ormai reale trasforma i vecchi ruoli e plasma le modalità con cui posizionare l’arte in un sistema liquido. Che non significa uccidere la pittura e i linguaggi manuali, semmai implica spostamenti nella gestione dell’opera, nel modulare gli input e output del quadro, nelle integrazioni cognitive tra grammatica analogica e sintassi digitale. Bucchi credo continuerà a dipingere per molto tempo, e lo farà nel mantenimento strategico delle proprie variazioni minime, dentro un ciclo gestuale che alimenterà la propria teoretica della pittura. Al contempo, le sue
dotazioni semantiche possiedono lo spillover linguistico, quel salto di categoria che lega un esoscheletro digitale al ciclo generativo della manualità. In pratica, le sottrazioni e il segno fluido di Bucchi determinano minimi spostamenti nel tempo, un’attitudine in cui l’origine manuale ingloba, senza volerlo, il
suo opposto digitale. Ciò accade per una ragione semplice: lo scheletro del disegnare a mano libera, producendo azioni di talento iconografico, corrisponde alle fondamenta del disegno nativo digitale. Questo avviene perché ogni processo informatico, dai primordi in HTML ad oggi, è stato regolato da principi antropomorfi, da una centralità dell’umano che ha creato, ad immagine e somiglianza del disegno libero, la prima grammatica digitale per le arti native.
Subito mi vengono in mente le “Variazioni Goldberg” di Johann Sebastian Bach, ad oggi il miglior esempio per comprendere il movimento ideale tra un archetipo (manualità)e i suoi sviluppi (digitale). L’opera musicale è un’architettura modulare di 32 brani, disposti secondo simmetrie rigorose e schemi di origine matematica. Ricordiamo che Bach amava la filosofia e l’astronomia, e non a caso le variazioni sembrano schemi terrestri che si mescolano a risonanze cosmiche ed echi esoterici. Manualità e digitale hanno le stesse corrispondenze che notiamo nel sistema sonoro di Bach, due condizioni d’ingaggio linguistico che cercano appartenenza e reciproca empatia, proprio come avviene con i tappeti sonori di un compositore che già conteneva, senza saperlo, il destino futuro
della musica elettronica.

Mi viene da affermare che la pittura rimarrà il linguaggio più innovativo e veggente dello scibile creativo. Il suo ecosistema contiene la strategia di adattamento agli habitat momentanei, identificando ogni volta obiettivi e mezzi opportuni per il raggiungimento del risultato. Ciò mi convince a scommettere sul rinnovamento della pittura dentro il canone stesso del quadro, una partenogenesi continua che metabolizzerà i flussi del progresso. Il canone in questione si chiama DISEGNO e il suo codice genetico produce filamenti digitali che ne ampliano la portata spaziotemporale. Bucchi, in un panorama che omologa per adesioni al progresso, sceglie la via opposta e parla di riduzione dentro l’unicum delle variazioni minime, cucendo assieme l’esplicito dispiegarsi della
pittura col substrato implicito del suo doppio digitale (il nostro artista potrebbe anche non realizzare mai un quadro digitale, ciò che conta è la valenza del potenziale dentro la traccia dell’evidenza).

Ogni quadro è la trascrizione di un codice chiuso, personale, non fungibile per natura. Le opere false, le stesse che hanno sospinto il mercato verso le sicurezze tracciabili degli NFT, riguardano gli incidenti di mercato, non certo la perdita di sostanza del quadro originale. Perché dentro il canone del
disegno esiste il codice genetico di un tratto non replicabile, esiste l’anima cognitiva che trasmette dati nel gesto, esiste una linea ottica che riguarda solo l’autore. La pittura rimane l’unicum non replicabile che dà sostanza al principio di unicità, preziosità, esclusività. Un codice sorgente che si ciba
di segni, materia, gesti, colore, superfici… Un codice che oggi si libra nel blu, dipinto col blu. Il blu di Danilo Bucchi.

In anteprima per VISIONAREA presentiamo le opere pittoriche del ciclo BLU. Tele di grande formato per narrare una novità sostanziale verso un colore ad alta caratura simbolica, elaborato con la consueta e meticolosa attenzione al rituale cromatico, al suo incidersi sul bianco netto dei fondali. Una coscienza gestuale che affronta il ritmo e gli equilibri del segno, captando valenze liquide che solo il blu intuisce e sostiene con empatia mediterranea, muovendosi tra le astrazioni del cielo e le brillantezze cristalline dell’acqua, aggiungendo la misteriosa coscienza minerale del blu, alchemico nel suo moto instabile delle valenze tonali, delle profondità gemmologiche, dei giochi luministici.

Forme in blu che diventano corpi autobiografici di un diario senza date.

Corpi che incarnano le astrazioni liquide di un rituale nel bianco cosmico della galassia interiore.

Disegni fluenti e viscosi, apparizioni nella geografia del pieno siderale.

Disegni elettrici nel sistema cognitivo di un pensiero fetale della pittura.

La mostra avvolge il pubblico con le sue forme fecondate da un blu irradiante e scivoloso. I corpi di Bucchi sono sempre più diluiti, come se anelassero un ritorno alle origini arcaiche del graffito, alle radici da cui il segno iniziò a narrare storie condivise. Quei segni sul bianco sono la filiazione continua di un artista che genera forme embrionali e motorie, immerse nel loro piano emotivo e sentimentale, specchio diaristico del mondo interiore che diventa racconto condiviso.
Bucchi è un artista che affronta il rituale metafisico della pittura, scavando nel rumore sottile dei dettagli, nel muoversi lentamente dentro il segno embrionale, con una frequenza ascetica che scava nella singolarità dell’azione figurativa, orientando le asana muscolari del gesto netto davanti al bianco di una geografia senza margini. Il rito di Bucchi è controllato, metodico fino alla scarnificazione, come fosse il movimento rallentato di una spada che fende l’aria. Il risultato pittorico ha somiglianze non banali con le regole dell’aikidō, l’arte marziale in cui corpo e spada diventano un medesimo volume plastico e muscolare. Quel muovere la mano tra velocità e controllo crea forme che includono il caso immaginato ed escludono ogni ipotesi di casualità. La vertigine grafologica è la stessa di un ideogramma orientale, dove la mano agisce come una katana e il risultato solca la terra del bianco con incisioni profonde e fluviali, così simili a corsi d’acqua che divengono tracce di corpi autobiografici.

Dopo aver affrontato la lunga respirazione del segno nero su fondali bianchi, dopo aver inserito frangenti arteriosi di rosso tra le tramature dei segni neri, dopo aver affondato lo sguardo nel nero totale, Danilo Bucchi ritrova oggi la geografia del bianco su cui scorrono i fiumi del suo nuovo gemello cromatico: un blu minerale e boreale, scivoloso tra anse che si allargano e stringono, tra rivoli che schizzano e compattano la densità cromatica, tra curvature elastiche che ci fanno pensare al Pianeta visto dal cielo ma anche al microcosmo che l’occhio nudo non percepisce.
Danilo Bucchi si conferma un serio unicum nell’attuale panorama pittorico. La sua identità iconografica lo colloca in un limbo che ibrida la figurazione nel suo opposto e viceversa. Non esiste una lettura diretta e univoca del suo universo liquido, semmai ci si muove per slittamenti e somiglianze, dentro un contesto semantico che si identifica nel proprio stilema estetico, esaltando un processo autoreferenziale che è da sempre lo scopo ultimo della grande pittura, ovvero, la creazione di un proprio mondo che si dispieghi nei codici esegetici di uno sguardo divinatorio.

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