2013 – ANTONIO MARRAS + DANILO BUCCHI insieme siamo altro – Palazzo Collicola Arti Visive, Spoleto

INSIEME SIAMO ALTRO
Gianluca Marziani

Il disegno come origine della visione figurativa Il corpo come geografia organica in continua trasformazione

Antonio Marras + Danilo Bucchi: due attitudini interiori, due modi complementari di affrontare l’elaborazione della forma e la soglia immaginifica della visionarietà. Un eclettico designer che dalla moda sconfina in altri territori e un artista italiano in costante ascesa s’incontrano nel Piano Nobile di Palazzo Collicola. Un’alchimia dei sensi materici e spaziali, una fusione dialettica da cui emergono gli archetipi del disegno primordiale, l’ispirazione figurativa delle comuni origini, la gestualità come “tecnologia” emotiva del controllo liberatorio. La sequenza di salette e saloni fornisce una geografia adatta per il progetto: e il viaggio diviene un respiro aerobico che si adagia sui singoli ambienti, distribuendo percentuali variabili di “ossigeno”, talvolta con respiri profondi, altre volte con soffi brevi e sincopati, altre ancora con momentanei lampi di apnea. Mi piace l’idea dell’opera come polmone negli spazi della memoria: l’ossigeno non lo vedi ma è linfa necessaria che si plasma sulle superfici, un flusso variabile che circola dentro di noi e ci integra tra le cose attorno a noi; così l’opera dentro il Piano Nobile, timida ma generosa davanti all’imponenza del passato illustre, mimetica nel suo disporsi senza enfasi, impronta fluida di un’archeologia al presente. Immagino la mostra come un viaggio diaristico per frangenti ipnotici, un districarsi poetico dei dettagli che scovano rifugi momentanei… sinusoidi espressive tra tavoli, cassetti, sedie, muri, altri mobili, altre superfici, dentro il cuore di una scenografia silenziosa, nel limbo sospeso di una casa comune per idee simbiotiche.

Da una parte Marras: sua la maestria artigianale, il senso plastico dei materiali grezzi, l’energia antropologica delle visioni generative, la qualità poetica dei progetti installativi. Dall’altra Bucchi: suo il tratto nero tra istinto e metodo, la pulsione narrativa della figurazione, i corpi ibridi tra sogno e disciplina, la sintesi del disegno infantile che si trasforma in un diario randomico. Due approcci alla costruzione, due modi elaborativi che si somigliano e integrano per modelli e strutture. Due pianeti che scelgono comuni galassie per un’esperienza di slittanti condivisioni.La moda di Marras è da sempre un diario intimo che usa gli abiti come fogli sparsi, ideali pagine di carta logorata per trascrivere le ispirazioni nei tessuti, nelle cuciture, nei tagli, nelle sovrapposizioni. Il fattore artigianale ha qui un valore sintattico, mentre la grammatica parla tramite memorie ancestrali, cultura del territorio d’origine, idealità del recupero, mescolanza culturale. Raramente vedo nella moda una propensione al volume e al contenuto scultoreo, di solito si tratta di ambizioni formali (Haute Couture) per elaborare una tensione che è nella struttura, mentre con Marras si aggiunge una chiave ideativa che gioca per astrazioni e concetti-chiave, offrendoci un vestire che evoca storie, richiama temi, indica contenuti. Il designer cuce pittoricamente i suoi mondi interiori, fino a trasformarli in un abito definito (quindi ultimato) ma mai definitivo (come vuole l’anima arcaica del disegno). L’arte di Bucchi è da sempre un diario dai formati variabili, un giro sequenziale che segue gli ordini emotivi, le inclinazioni momentanee, la forma atipica del quotidiano. I suoi personaggi rispecchiano i perimetri sensoriali e sentimentali del mondo interiore, sono proiezioni dinamiche che trasportano il dentro nel fuori del quadro, una traccia traspirante che mappa le superfici come una radice necessaria. Dentro i perimetri neri accadono “vestizioni”, si compiono rituali del ricordo, il bianco si trasforma in contenitore germinativo. Traspare una propensione pittorica che “veste” le nudità istintive, usando la ragione come un collante narrativo dell’immagine. Bucchi, in maniera implicita ma consapevole, cuce gli elementi figurativi attorno ai suoi filamenti perimetrali, attorno a profili che hanno la metodica del controllo e la libertà della veggenza. Il disegno come origine della visione figurativa Il disegno, codice primario per Bucchi, è la materia viva di Marras, la sorgente creativa, la sua memoria fedele. Non a caso il designer riempie i propri taccuini con appunti figurativi che includono memoria e intuito, introspezione e immaginario, sorta di viaggio da fermo verso quel fatidico abito coi canoni della scultura. Pensiero e disegno si compenetrano senza distanze, non esiste alcun processo industriale nel frangente visionario, nell’attimo astratto di un pensiero sospeso, fatale, incandescente.

Il corpo come geografia organica in continua trasformazione Vestire i corpi, attitudine naturale di Marras, è invece la tensione implicita di Bucchi, una sottile sartorialità pittorica che cerca sulle superfici il codice distintivo, l’alchimia emotiva, la chiave psicanalitica dietro il dettaglio. Il disegno pittorico di Bucchi contiene l’approccio dell’artigiano tra materie eterogenee, tra dissonanze che vanno amalgamate senza cesure. Ed è come se l’artista somigliasse al designer che cerca risposte nel ricamo aggiunto, come se la manualità denotasse il senso biologico di un’appartenenza al mondo prescelto.

Camere sensoriali… perché ogni sala attiva i nostri sensi con perspicace veggenza. Il ritmo scenico prevede azioni estetiche che sono apparizioni installative, ogni camera un’ipotesi domestica per la momentanea vita spoletina delle opere. I sei cassetti in sequenza con altrettanti quadri, il grande tavolo circolare, la spinetta e lo scrittoio, i tavoli con specchiera… protesi del luogo che sono l’esercito muto del Palazzo, memorie di legni, marmi e tessuti per ascoltare il destino del presente. Qui i pezzi di Marras e Bucchi dimostrano l’anima del passante ma anche l’alchimia dell’abitante, si poggiano dove trovano pace eppure sembrano parte organica del luogo. Per questo abbiamo scartato la logica frontale della visione canonica, le opere avevano bisogno di un allestimento ad altezza di realtà, dovevano appartenere al codice plausibile della vita. Da qui l’idea della mostra, la soluzione per le sale, la chiave per immaginare oltre l’immagine.

Una mostra che è un dialogo identitario, una riflessione sui canoni del disegno, sui rapporti tra immagine e materiali, sui passaggi dentro il processo ideativo. Suture, strati, implosioni, assorbimenti, coperture, sovrapposizioni: i quadri mescolano idee complementari del corpo, come se ogni silhouette fosse una geografia di guerre interiori, una mappa inquieta, una zona ad alta intensità sentimentale. Vediamo nature grezze e colore, frammenti decisi e gesti catartici, vortici impazziti, colature e chiazze, distonie e prospettive oniriche… vediamo fogli di vario formato che si adagiano su mobili, altri lavori che sembrano volare, opere minime, carte pregiate ma anche semplici brandelli di quaderno… vediamo la scultura che ci riporta al pathos espressivo di Bucchi, ai suoi personaggi amabilmente empatici… vediamo assemblaggi sorprendenti, apparizioni sceniche, vuoti che si riempiono senza enfasi… un progetto di silenziose eleganze che si dispone in modo mimetico, plasmandosi sui volumi di un habitat antico, dove i materiali partecipano al rito di una speciale “vestizione” del mondo interiore.

Qualcuno si chiederà di cosa “parlano” le opere. Devono ovviamente rispondere i soli quadri: e la soluzione appartiene al nostro sguardo, al modo in cui utilizziamo il binocolo interiore. Però tornano alcune comuni ossessioni, attimi senza simulazione che indicano le ragioni profonde del dialogo a due teste, quattro mani e tre cuori (Antonio, Danilo e il luogo stesso). Il corpo è l’universo di comune riferimento, e su questo siamo d’accordo. Il salto nello straordinario avviene attraverso l’emotività violenta ed espressiva, tramite gesti, abbracci, trazioni, viluppi della carne. Pulsa l’espressività catartica del femminile, l’archetipo materno, l’erotismo non posato, la mutilazione emotiva, il vuoto che spesso non si riempie. Pulsa la bellezza feroce del dolore, l’animalità ferina, il rosso vivo della passione, la violenza estatica della potenza privata. Qui non esistono passerelle ma solamente ponti di raccordo, strutture invisibili che legano due sguardi, due approcci, due attitudini alla creazione. Non è l’epilogo ma il nuovo inizio della bellezza contemporanea: ibrida, metamorfica, disarticolata, panteistica, incoerente, onirica, romanticamente rabbiosa, senza ideologia, figlia della memoria e madre del nostro futuro.

Quando l’abito diventa habitus Quando la pittura diventa volume plastico Quando il dialogo diventa progetto

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