2012 – Social Cube – MUSEO CARANDENTE – Spoleto
Palazzo Collicola conferma la sua attitudine recettiva verso le nuove dimensioni figurative. Non è un caso che il ciclo di acquisizioni permanenti stia indagando ulteriori modalità collezionistiche, inserendo opere murali che diventano parte integrante della struttura museale.
DANILO BUCCHI – “Social Cube”
Velocità, sintesi, controllo: tre momenti che delineano l’attitudine del gesto, la natura del segno e l’impostazione visuale dell’artista. Significativo, in particolare, il connubio tra processo cerebrale ed esecuzione tecnica: esiste un flusso senza interruzioni tra l’idea e il suo sviluppo sul quadro, giocato su un automatismo concentrico che evita la frammentazione discontinua del pennellare. L’uso della siringa al posto del pennello rende possibile la fluidità motoria del gesto veloce eppure calibrato, un’azione che risente delle energie Gutai (l’avanguardia giapponese che aprì la tela alla forza muscolare dell’agonismo) ma anche di Jean Dubuffet e Wols, Jackson Pollock e Maria Lai, fino alla cultura street di cui Bucchi sembra un fuoriuscito talentoso e inclassificabile. Le diverse influenze si raccolgono assieme per una formula che è un codice linguistico, imprinting lessicale con cui l’artista trasforma quei corpi mentali in un “mondo alla Bucchi”.
ìI cerchio nero di Bucchi è un modulo costruttivo, un mattone senza spigoli che edifica storie umane dentro il teatro bianco della superficie. La rotazione segnica diventa un intrico di figura, massa e racconto, una sorta di perimetro organico che sviluppa la fisicità in “negativo” attraverso il bianco piatto del fondale. I vuoti si riempiono attraverso la sottile linea nera dello spruzzo, mentre il rosso spunta (solo in alcune opere) tra pieghe e angolazioni, su interstizi che confermano lo scorrimento di una linfa ematica, vero e proprio ossigeno che scalda il segno nero e il bianco degli organi caldi. Trovo conferma a quel pensiero biologico che collega disegno e pittura, mi azzarderei a dire che Bucchi sta varcando una soglia su cui occorre riflettere in termini generali. Parlo del limite linguistico che ha sempre diviso carta e tela, matita e pennello, foglio e telaio. Quel divario storico (disegno come bozzetto e prodromo, pittura come esecuzione e definizione) perde ragion d’essere in virtù della filiera elettronica al centro del nostro bioritmo.
La tecnologia digitale ha spezzato il duopolio bozzetto/esecuzione, assorbendo il filo dei linguaggi storici ma filtrando tutto nei materiali che compongono la tecnologia stessa: gli strumenti simili eppure diversi, i colori del monitor che sono altra cosa dai colori ad olio o acrilico, i supporti di stampa che assorbono in una certa maniera gli inchiostri, le visualizzazioni che lasciano un filtro (il monitor) tra l’occhio e la forma creata, queste ed altre identità stanno cambiando percezione ed esecuzione, creando un metalinguaggio che non si preoccupa più di alcuna divisione dogmatica. Non dimentichiamo che il linguaggio digitale fonde assieme l’essenza della linea (la scuola Apple di Steve Jobs agisce da sempre per sottrazione e sintesi) con la pluralità del barocchismo (il percorso storico della grafica digitale parla di accumuli e virtuosismi), creando quel metalinguaggio che concepisce modelli unici ma non univoci, liberi di spaziare ma delineati per struttura generale. Non pensiate che il linguaggio elettronico sia una porta anarchica dove tutto è permesso. Le regole esistono e costituiscono la massa critica, un’ideale costituzione che indica e denota, permette e vincola. Il gioco attuale riguarda minimi equilibri tra addizioni e sottrazioni. Il nuovo millennio è una bilancia che plasma le sue tarature sul momento storico e sul contesto specifico, dando al metalinguaggio una centralità che sta riscrivendo le regole dell’arte.